Elverio Maurizi - 1980


Simona Weller: dipingere con le parole

Dipingere con le parole per Simona Weller non è tanto un aforisma, quanto una verifica tra una situazione intellettualistica e la convergente rispondenza del reale; direi di più è addirittura il rimando a uno specchio di riflussi che, oltre tutti gli antefatti storici possibili (Apollinaire, Futurismo, Dada, ecc.), propone presenze allusive attraverso la convivenza quasi simbiotica dei vocaboli con la suggestione delle immagini. La funzione della comunicazione, perciò, appare in un certo senso ambigua e provocatoria perché suggerisce un labile rapporto tra una dimensione sintetica, quella verbale, e un'altra analitica, quella rappresentativa, per le quali non necessariamente l'edificio metalinguistico deve prevalere sullo specifico letterario.

Senza ricorrere ai miti psicoanalitici che, pure, contraddistinguono tanta parte della critica odierna, a me sembra che il discorso della giovane pittrice debba essere ricondotto alla sua più radicale semplificazione, cioè al momento in cui parole e pittura si concretizzano in un immaginario, le cui confluenze percettive dinamizzano il tessuto psicologico originario, trasformandolo in occasione di discussione e di confronto. Si potrebbe, persino, avanzare l'ipotesi di una diretta affrancazione dai recessi più oscuri del profondo di alcuni fermenti sedimentativisi nel tempo, di ricordi emergenti dall'infanzia, di lucidi tentativi volti a recuperare un universo dove fantasia e realtà si confondono. Tuttavia, soltanto l'approccio storico, che nel caso preferisco, appare indicativo e, talvolta, risolvente della preistoria di un dipingere interessato ai temi del quotidiano e della metafora, visti quali emblemi essenziali dell'essere.

L'indagine conoscitiva, quindi, si indirizza necessariamente all'analisi dell'antecedente investigazione dell'artista, cioè di quelle componenti vagamente surreali che per alcuni anni hanno influenzato la sua ricerca, avviata lungo la linea Ernst-Matta-Sutherland, già acutamente individuata da Cesare Vivaldi. In effetti, quel suo rielaborare i dati del reale per riproporli mediante simboli e allusioni, attraverso sintesi ed estrapolazioni rimane una sua costante peculiarità che anche oggi sembra caratterizzare il lavoro.

Il significato magico, racchiuso in quel suo compilare pittoricamente l'espressione linguistica, governa, infatti, la rappresentazione, vestendola di una sottile nostalgia del naturale, sufficiente a renderlo visibile, a poco a poco, non tanto con gli occhi dell'immaginazione, quanto come sostanza tangibile, capace di catalizzarne i segni e di scandirne il ciclo vitale. Se conoscere è per ciascuno l'occasione di dimostrare in un momento storico determinato la sussistenza del problema esistenziale come supporto del divenire, Simona Weller, usando una metodologia simpatetica (nel senso etimologico della parola greca, cioè sentire insieme), constata come la mediazione del suo tracciare non risolva, sic et simpliciter, la necessità di illustrare compiutamente il significato globale della propria invenzione, ma suggerisce l'urgenza di esaminare unicamente la funzione del significante. L'artista, insomma, è costretta a seguire un processo mentale e pratico, dove il testo e l'iconografia sollecitano attraverso le connessioni semantiche, più o meno evidenti, un linguaggio pienamente aderente alle motivazioni più segrete della creatività.

Quando Federica Di Castro avverte come in quella pittura "la parola" si tramuti in "scansione di ritmi, segno, segnale, trascrizione, errore, memoria" e più sinteticamente in "proiezione dell'anima sulla tela", in effetti, sottolinea come i punti di riferimento, ortografici e non, moltiplichino le loro incidenze e riescano a evidenziare le valenze sentimentali e istintive del manufatto. Il ribadire i riflessi di lezioni culturali diverse, che vanno da un colore post-impressionista a una oggettivazione sistematica del racconto e a una introspezione del profondo, coinvolge chi guarda in un clima apparentemente romantico, grazie al quale, però, l'intensità della comunicazione è data specialmente dal sottile e penetrante equilibrio di toni e di linee.

Altri problemi emergono pressanti al guardare con attenzione la produzione recente della pittrice, non ultimo quello della libertà compositiva avvertita nelle diverse costruzioni del dipingere, mai prive di coerenza nel loro svolgersi in maniera euritmica, intesa a segnare le cadenze nella lettura e a sollecitarne, come se fossero argomenti fondamentali, le pause e le suggestioni che l'articolano. Sottolineare la trama e l'ordito di tale tessuto di segni è sufficiente per svelare le connessioni segrete delle idee, l'aggrovigliarsi dei pensieri, gli appunti grammaticali e sintattici che spingono gli elementi primari del fare a giocare liberamente all'interno di un continuum spazio-temporale appassionato e provocatorio. Un respiro ampio e, a volte solenne si svolge con simmetrica crescita di toni sulla tela, animandola diversamente e segnandola sinuosamente con un tracciare ricco di contenuti e di drammaticità.

Tommaso Trini è, quindi, nel giusto quando osserva come "la scrittura di colori" della Weller sovrapponga tra loro "i ritmi orizzontali di una griglia di tamponatura" necessaria per esaltare "i toni sensitivi del suo rapporto con la natura". Ciononostante, credo di dover rilevare come la funzione del lemma, tramutatosi da concetto in traccia, pervenga a una destrutturazione armonica del vocabolo che, comunque, appare sempre in grado di fungere da cassa di risonanza di tutte quelle vibrazioni psicologiche la cui evocatività lascia a chi guarda l'ufficio di riflettere sulle molteplici implicazioni esplicite e implicite delle opere.

Che le pulsioni cromatiche usate dall'artista si coniughino "al femminile", come sostiene Marisa Vescovo non mi pare possibile. Se, però, con tale espressione si fosse inteso indicare una particolare sensibilità, una aggraziata felicità immaginativa o un sistema organizzativo singolare, capace di rendere palese la natura quasi musicale del suo dipingere, il trasferire per analogia dal piano dell'esperienza a quello intellettuale di certe tensioni intime, le cui "unità linguistiche elementari" rilevano un carattere femminile, conduce a concordare sulla definizione, perché attraverso di essa si trasferisce sulla tela una privacy ideologico-culturale diretta a finalizzare le connotazioni logo-iconiche, le cui modalità verbali-visive rappresentano il fulcro dialettico del discorso.

Dieci anni di pittura, dal 1970 al 1979, rappresentano un lungo percorso, sufficiente a chiarire le motivazioni che hanno guidato l'artista romana a un continuo affinamento degli strumenti della propria investigazione pittorica.
Dieci anni dal 1970, dove lo spazio ipotetico si sviluppa con la stessa organizzazione della pagina di un quaderno di scuola, ricco di spessori transitivi che mutano i significati secondo le regole immutabili di una dialettica elementare, a Ciao, burattino del 1971, dove la costruzione appare come supporto del fonema, appena rafforzato da disegni in grado di sottolineare la demarcazione esistente tra leggere e vedere, a Con la parola erba del 1972, dove lo spazio della scrittura, grazie al ritmico sovrapporsi delle lettere, apre uno spazio figurale il cui respiro rivendica una propria autonomia visiva e ancora maggiormente con Tessitura per la parola erba del 1973, i cui tratti distintivi sembrano indispensabili per evidenziare il carattere di sudditanza della parola scritta rispetto a quella desemantizzata, si assiste a una progressiva compenetrazione del codice linguistico con quello pittorico, che li rende complementari nella focalizzazione dei contenuti intellettuali.
In tele, quali Un campo di grano con volo di corvi, l'esercizio grafico sembrerebbe assorbente se le parole non venissero quasi disarticolate perché dalla tecnica di scomposizione nascesse un processo comunicativo efficace quanto la scrittura stessa. Altrettanto avviene in lavori di quel periodo e degli anni successivi, dove lo spazio linguistico, apparentemente superato dalla scomparsa dei vocaboli, tuttavia risulta ancora operante come struttura attraverso la scansione di taches, la cui concatenazione analogica e sintattica facilita la percezione di una molteplicità di toni cromatici e dello sciogliersi del colore fino a suscitare risonanze allusive di significati altrimenti nascosti.
Tessere un mare viola trasforma, invece, il testo compositivo in vere e proprie tessiture grafiche, dimostrando quanto il supporto del dipingere si inserisca nel contesto, dilatando qualità fisiche proprie del fare a sfere culturali pregnanti.

L'analisi non sarebbe esauriente ove si ignorassero i risvolti impliciti delle opere successive.
Ricordo a titolo esemplare Parole controluce, un collage a tempera su carta del 1978, particolare del più vasto lavoro Diario al muro, nel quale si notano componenti di valore quasi plastico, oppure Un colore per ogni ora dello stesso anno, dove il pigmento diviene traccia grafica, imitazione di un linguaggio ch'è superamento della convenzionalità del segno, indagine concettualizzata sempre più tendente alla rarefazione, echi della quale si leggono in Quando in primavera o nei due pastelli e tempera del 1979 Vento nell'erba e Fuoco nell'erba.
Maggiore interesse, tuttavia, rivela il lavoro più recente dell'artista, quello cioè sul tema de L'abolizione della realtà, non solo per la felice intercambiabilità degli enunciati artistici, quanto per il carattere evocativo assunto dal manufatto, tale da far risalire l'osservatore dalla fisicità dell'invenzione alla sensibile realtà del processo mentale.
In una lettera recente, Simona Weller, nel descrivere le ultime ricerche, parla di ricomparsa di elementi figurativi, di scritte leggibili e parole asemantiche, a brandelli di immagini che diventano scrittura e a scritture che divengono brandelli di immagini, a una sorta di codice cifrato dell'inconscio, i cui archetipi sono presi dalla "grande pittura" e dalla "grande poesia".

Quale sia l'ambiguità racchiusa in queste composizioni non è facilmente determinabile, ma appare legittimo chiedersi se la consapevolezza critica possa definire il limite del sistema, riducendo la creatività a nostalgia, a suggerimento di lettura, a occasione magari necessaria per interpretare una poetica che va al di là della nuda apparenza per osservare ed esaltare non solo le valenze architettoniche o d'impaginazione, ma soprattutto quelle musicali e pittoriche.

La consapevolezza di un "normale-quotidiano", che Renato Barilli indicava come punto d'arrivo dell'indagine sulla scrittura, è per l'artista punto di partenza, avvio a una esplorazione del possibile, avventurosa e rasserenante.

Scrive Roland Barthes che "un'immagine non costituisce da sola l'immaginario, ma l'immaginario non può essere descritto senza tale immagine, pur gracile e solitaria che essa sia": Simona Weller nelle sue estrapolazioni usa una grammatica di segni e una cromia elementari, di supporto a un fare eloquente, anzi trasparente, la cui duttilità esalta le esigenze formali del dipingere e, soprattutto, evidenzia i valori di una personale scrittura che sembra colmare agevolmente la distanza riscontrabile tra pittura e letteratura. "Per gli eletti", affermava Oscar Wilde, "le cose belle significano soltanto bellezza"; per chi, come noi, è nato in tempi più bui, assuvmono un significato esistenziale, una interpretazione quasi escatologica del principio dell'arte-vita, un fatto che ingloba illusione e realtà; per la giovane pittrice romana sono un'affermazione luminosa, un'analisi liberatoria, un contributo privato per vivere il sociale.

Macerata, Maggio 1980